Pressioni universitarie
Milano, 19enne trovata morta in un bagno dell’università Iulm: biglietto shock “fallimenti personali e nello studio”
Così titola TPI la notizia del suicidio di una studentessa della IULM. Si tratta di un fatto di cronaca comprensibilmente molto commentato.
Molte persone non riescono a comprendere cosa possa celarsi dietro il gesto suicida di una ragazza di diciannove anni e, per riempire di senso questa drammatica notizia, vomitano giudizi e cercano facili carnefici. Qualche campione d'empatia arriva persino a dare per certa la negligenza dei genitori: "io una volta ho detto a mia figlia che un brutto voto non è la fine del mondo", come se una sola frase facesse la differenza tra la vita e la morte, come se questo fosse un caso straordinario.
Un altro caso straordinario§
Ma questo non è un caso straordinario: suicidi simili sono raccontati ogni anno tra le pagine di giornali nazionali e locali; in alcune testate potreste non averli notati, sono nascosti dietro le notizie dei record delle nostre "eccellenze". Avete presente le nostre eccellenze, no? Pare siano ovunque: hanno 22 anni, macchina nuova e già terza laurea in istituto privato; alcuni amano dare degli sfaticati ai colleghi pigroni e raccontano i pomeriggi che hanno sacrificato sull'altare della conoscenza.
È chiaro, gli studenti e compagni che hanno deciso di abbandonarci avranno avuto le proprie circostanze specifiche che li hanno spinti sul punto di non ritorno, ma l'analisi di queste specificità interessa le famiglie, gli amori, gli amici, non la società. Noi dovremmo mettere a fuoco ciò che accomuna questi studenti: seppure asincronicamente, questi studenti partecipano tutti allo stesso coro, cantando di percezione del fallimento e perdita di valore.
Quando la ragion d'essere d'ogni individuo è situata dall'intorno sociale nella pulsione all'automiglioramento, o (più correttamente) nell'accrescimento del proprio potenziale commerciale, nell'immaginare il proprio corpo e la propria mente come sedi di un investimento, è chiaro che mancare un anno o due può apparire come un imperdonabile errore da cui tornare indietro è impossibile. E non si può comprendere quest'ultimo punto senza adottare una prospettiva di classe, senza osservare l'impatto delle condizioni economiche delle famiglie coinvolte. Quando l'eccellenza di turno racconta ai giornali il proprio anno sabbatico, spesso sottolinea il valore delle esperienze extra-curriculari, l'importanza dell'inseguire il sogno di fare il vlogger di cucina negli Stati Uniti, il viaggio per tutta Europa sul minivan. Ma sapete cosa fanno tutti gli altri quando prendono "una pausa" di un anno o due? La trascorrono in un'altalena di crisi depressive, annaspando per restare vivi, (con)cedendo al corpo del tempo per recuperare energie da un presente d'ansia e desideri esogeni, imposti da altri.
E che dire, arrivati a questo punto, dell'impossibilità d'accedere a servizi di cura? Del non poter pagare psicologi o psichiatri nel privato, né sentire di poter chiedere un simile (ed ulteriore) sacrificio ai propri genitori? E non venite a dirmi che ci sono anche centri per la salute mentale nel pubblico, visto che quelli, ammesso che esistano nella regione dello studente, sono il più delle volte sottofinanziati, saturi, da cui le attese infinite, magari anche distanti. Siccome la macchina non è appannaggio di tutti, raggiungere la sede potrebbe richiedere numerosi viaggi in treno, sempre che non siate al Sud, dove quei treni potrebbero non esistere nemmeno, e allora la questione di classe si interseca con quella meridionale.
Se cercate un colpevole per dare senso all'orrore, non immaginate mostri nelle case delle vittime; la mostruosità è già normale e si trova tutta intorno a voi: per riconoscerla, basta voltarsi verso chi ogni giorno batte la grancassa contro i giovani sfaticati. I colpevoli sono tra le fila dei partiti che ogni giorno lottano per erodere i finanziamenti ad ogni servizio pubblico e misura assistenziale. Mentre ciarlano di inefficienza, uccidono. Se cercate il nemico, lo trovate nebulizzato nell'ideologia egemone ed in chi la alimenta.
Ipersensibili?§
Ritorno sull'argomento in risposta alla superficialità violenta del commento che cito a seguire.1
Magari se i vostri genitori vi fanno pressione per gli studi trovatevi un lavoro. Milioni di persone hanno studiato lavorando e sono vive. Non si può far diventare ogni cosa una tragedia. Altrimenti poi definite una testa di peluche disturbante. Avete 25 anni. Non 13.
— Non sono Cinzia (@Iosonolagomma) February 2, 2023
No, questa non è una generazione di ipersensibili che non sanno gestire un brutto voto: chiunque abbia formulato commenti simili è stronzo, ma chi li ha solo pensati (o discussi con rispetto) potrebbe essere stato ingannato da un'illusione ottica. Un po' come quando si muove lo sfondo e la macchina immobile pare che viaggi spedita, così non è diminuita la resistenza di tanti individui alle sollecitazioni psichiche della vita quotidiana, al contrario, è aumentata drasticamente la pressione ambientale.
In un ambiente a gravità centuplicata, il tocco di una piuma può rompere i vasi riposti sul pavimento: così, in condizioni sfavorevoli, capita possa bastare una serie di bocciature per scatenare crisi profonde in un essere umano. A guardare altri vasi, magari protetti in teche di plexiglass, conservati ad alta quota, con riverniciature speciali, si potrebbe pensare sia stata tutta opera della piuma, della bocciatura. Ma un'atmosfera è fatta di tanti gas e ognuno esercita una sua pressione parziale. Sicuramente un pessimo ambiente universitario, l'insufficienza di sportelli per il sostegno psicologico, l'imbattersi in personalità accademiche indelicate ecc. può incrementare il malessere, ma chi non risolva totalmente il proprio orizzonte nella vita universitaria e cioè sente d'essere una persona al di fuori della propria performance accademica, costui sarà solitamente capace di metabolizzare lo stress, di ammortizzarlo. Anche se c'è chi ci va vicino, nessuno studente vive incapsulato nelle aule dell'Università. La situazione certamente si aggrava se a casa l'aria comincia a somigliare a quella delle aule, con genitori pronti a proporzionare l'affetto sulla base dei risultati; si complica ulteriormente se gli amici vivono di piccole invidie e competizione spietata; la pressione aumenta se i parenti, da tipici borghesucci, non fanno che fingere sorrisi mentre gareggiano a chi ha concepito i figli più "di successo" (che si misura solo dal potenziale guadagno, e poco importa se il futuro dottore o avvocato è un misogino molesto da quando aveva 15 anni)
Non so che immagine abbiate di questo studente preso in esempio, ma potrebbe anche non essere bianco o non essere un uomo o non essere abile o nessuna di queste cose insieme. Potrebbe essere la persona che si impegna più di tutte e scontrarsi da anni con un DSA mai diagnosticato. Lo spazio intorno sembra creato solo per l'Altro, si restringe, diviene asfissiante e, per proteggersi, ci si assottiglia, mentre scompare la fiducia che il futuro, prima dato per scontato, possa mai appartenerci, pure ipotizzando la laurea. Figuriamoci concepirlo senza! C'è chi parla di tutto un mondo meraviglioso là fuori per il quale non vale la pena mollare, a costo di abbandonare l'Università, e lo so che questa — invece — è una frase detta con le migliori intenzioni, ma avete provato a vedere quel mondo con gli occhi dello studente? Anche ipotizzando d'evadere dalle aspettative di tutti (cioè del proprio piccolo intorno, ma apparentemente enorme), da soli dove si potrebbe mai scappare? In un paese che, con l'indegna invenzione del "lavoro a bassa specializzazione", legittima lo sfruttamento spudorato? Con che spirito si dovrebbe abbandonare il percorso di studi per abbracciare un futuro di lavoro sottopagato, mentre si osservano amici e colleghi gioiosi, ritratti da fotogrammi su qualche feed social su cui compulsivamente si finisce per cercare un'occasione di distrazione?
E qui veniamo ad un'altra sorgente pressoria, che è la vita online, estremamente sottovalutata, ma che acquisisce un peso via via maggiore, tanto più l'individuo sente di non avere spazi fisici da abitare o persone vicine con cui parlare accanto a sé. I social agiscono da specchio deformante e processano le esperienze altrui sulla base dell'aderenza ad una serie di standard per massimizzare la permanenza sulla piattaforma (e quindi il profitto). Sentirsi indietro vuol dire anche aprire ogni giorno Instagram e trovare i propri amici "più avanti": in viaggio all'estero, ad un aperitivo insieme, al concerto, nel salotto della casa nuova, mentre la propria vita è totalmente bloccata, la propria volontà in briciole.
È chiaro che anche altri affrontano difficoltà, ma non basta esserne consci astrattamente: la dimostrazione fattuale d'essere "gli unici" ad essere stati lasciati indietro si trova lì, tutte le mattine davanti ai propri occhi; e la speranza di recuperare si fa sempre più flebile. Di questo parliamo: non di una bocciatura o di una lamentela del genitore, ma di perdere la speranza che sia possibile ritagliarsi un futuro; e col tempo subentra pure il dubbio d'averne mai avuto diritto. Da dispositivo d'evasione che era, la rete (delle Big Tech) si rivela l'ennesimo territorio ostile, ma coi tratti dell'onnipervasività, poiché fisicamente è possibile evitare il contatto con l'altro, mentre virtualmente è impossibile evadere dalla propria assenza. Come si giustifica il fatto di non essere lì fuori, in quel momento, ad immortalare tramonti, a divertirsi? Anche proiettare un'immagine felice di sé appare come un imperativo ineludibile, è pure quello lavoro che non si sta compiendo, che si somma al carico mentale. L'identità online ricorda un castello di sabbia costruito in riva: va continuamente rimaneggiato, aggiustato, o tutto il lavoro precedente rischia di scomparire nel nulla. Pian piano anche le energie per "recuperare" sul terreno virtuale si esauriscono e si può giungere ad evitare pure la pubblicazione di una cosa da poco, per timore che dall'altra parte qualcuno possa ricordarsi di chi ci sta dietro e porsi delle domande sulla generale inattività: "ah, sì, che fine ha fatto?"
Sparire diventa preferibile, nell'attesa di uno slancio che possa riscattare la propria immagine agli occhi del Grande Altro. Una preferenza perenne si fa prassi, e di modi per sparire ce ne sono tantissimi: col passare dei mesi, tutti possono divenire appetibili. Tutti.
Quelle che ho cercato di descrivere non sono solo sfumature di depressione, ma anche passi su sentieri autonarrativi suscettibili di capovolgimento: nel disprezzo della morale borghese, della bio (e necro-)politica, nel tentativo di costruirsi al di fuori del proprio curriculum. Se rovesciare uno stato di inerzia è già difficilissimo, certo non è una passeggiata deflagrare autonarrazioni: richiede inneschi, reti sociali, parole salvifiche e complica inevitabilmente la comunicazione con chi nel pensiero egemone sguazza o, per lo meno, non conosce altro. Persone che nulla curano oltre al proprio ego capisco non vogliano sforzarsi di ascoltare, e figuriamoci divenire nodi nelle reti sociali che citavo, ma almeno potrebbero graziarci del silenzio e risparmiarci le loro immani stronzate.
Forse l'autrice non meritava attenzione, ma credo serbassi queste riflessioni sottopelle, per cui ogni commento "pungente" di questo genere è sufficiente a farle sgorgare con tutta la rabbia.
Questo post ti è stato utile?
Tieni a mente che questo sito è privo di tracker, analytics e pubblicità, quindi tutela la tua privacy ma non guadagna dalle visite (inoltre, è progettato per avere un impatto ambientale minimo).
Se ti piace questo blog, sostieni le mie riserve di caffeina