Se ti trovi qui, forse ti ho invitato io. In questo caso, benvenuto/a, è un piacere averti qui. Viceversa, come hai fatto a finire da queste parti? Per chi lavori?!

A causa di una decisione della Corte Suprema statunitense, il 24 giugno è stato eliminato il diritto all'aborto a livello federale negli USA. Si tratta di un evento che non salta fuori dal nulla, ma che si giustifica principalmente con la nomina di giudici antiabortisti da parte di Trump e, più indirettamente, con le svariate campagne che una componente minoritaria ma rumorosa della politica statunitense porta avanti da decenni, con ostinazione.

È notizia dei giorni scorsi che Biden avrebbe tentato invano di metterci una pezza, ma in questa sede possiamo tranquillamente soprassedere sulle antiquate e poco funzionali dinamiche della democrazia statunitense per concentrarci sui due punti che hanno maggiore peso per il cosiddetto Occidente.

Da una parte, la vicenda USA ci dà l'occasione (ennesima) di guardare in casa nostra e notare che il diritto all'aborto è negato in alcune parti dell'UE (vedi Polonia), così come è negato sostanzialmente in alcune regioni italiane, in cui ci il fenomeno dell'obiezione di coscienza tocca punte del 95% in alcune province. Dall'altra, i titoli che annunciano un ritorno a cinquant'anni fa, maldestramente ci spingono ad osservare quante cose siano davvero cambiate e perché mai siano platealmente fuori fuoco. Tra gli anni Settanta ed oggi si conta almeno un'ingombrante e pervasiva differenza, che consiste nelle aumentate capacità di sorveglianza statale.

Nel momento in cui un diritto viene improvvisamente negato ed un'azione precedentemente considerata legittima si fa reato, gli stati hanno la forza di pretendere dalle aziende i dati che possiedono sul vostro conto. A poco vale l'azione individuale, come la disinstallazione delle app per il ciclo che è stata consigliata col megafono non appena è stata resa nota la decisione della Corte statunitense. L'illusione di potersi facilmente nascondere agli occhi indiscreti dei dispositivi è data dalla familiarità che ormai il loro aspetto ci comunica mista alla diffusa assenza di consapevolezza sul loro effettivo funzionamento. Non percepiamo sulle spalle l'ottica della telecamera della nostra stanza come in 1984 e non vi sono costrizioni fisiche che terrorizzano chi dovesse scegliere domani mattina di spegnere il telefono, eppure non possiamo impedirgli di comunicare milioni di volte a settimana con i server del produttore, né possiamo essere sicuri che i dispositivi delle persone intorno a noi non stiano raccogliendo informazioni sul nostro conto.

Come ha affermato la sociologa e scrittrice Zeynep Tufekcy in un recente articolo per il NYT,

«What’s needed [...] is a full legal and political reckoning with the reckless manner in which digital technology has been allowed to invade our lives. The collection, use and manipulation of electronic data must finally be regulated and severely limited. Only then can we comfortably enjoy all the good that can come from these technologies.»

In altre parole, non basta ammonire i colossi come Google e Facebook, ops, Meta, con qualche multa ogni tanto, né serve a molto disinstallare l'app per il ciclo (che comunque potrebbe essere scelta con maggiore accortezza): per tutelare i diritti umani, servono delle leggi a regolamentare quello che la professoressa Shoshana Zuboff ha definito Capitalismo della Sorveglianza, ossia le attività lucrative basate sulla compravendita ed accumulazione del surplus comportamentale degli utenti. Finché questi dati esistono da qualche parte e continuano ad essere aggregati, venduti, rubati, decrittati ed elaborati giorno dopo giorno, continueranno a sussistere tutte le premesse per un loro uso scorretto da parte delle aziende stesse e degli stati, come abbiamo visto innumerevoli volte in questi anni.

L'unico modo sensato di affrontare la questione è quello di impedire l'accumulazione dei dati sensibili attraverso una regolamentazione che obblighi le aziende ad adottare dei protocolli più sicuri, come la crittografia end-to-end. La questione femminista, quindi, o più in generale ogni battaglia per i diritti individuali, non può fare a meno di affiancarsi o meglio intersecarsi alle lotte per il diritto alla privacy, che negli ultimi vent'anni sono state sempre più messe in ombra dalla solo apparente necessità dei piccoli ma incessanti baratti di informazioni e servizi tra noi e le aziende che operano nel settore. Come il caso statunitense ha reso evidente, è proprio chi non ha le possibilità economiche per cambiare stato all'occorrenza o per acquistare servizi digitali per tutelare i propri dati che è più vulnerabile alla sorveglianza statale; non è solo un problema per le minoranze o per le donne, è innanzitutto una questione di classe. E poiché garantire i diritti di tutti i cittadini a prescindere dalle condizioni economiche nella sostanza (e non solo formalmente) è prerogativa di ogni democrazia che si rispetti, a poco valgono gli appelli ad un uso coscienzioso dei dispositivi, né tornano utili le lamentele contro i servizi digitali tout-court: la nostra priorità deve essere rendere questi ultimi compatibili con le democrazie.


L'immagine di copertina è stata generata con Mindjourney.