17 gennaio 2022
Come ad altre 286 famiglie nella sola giornata del 17 gennaio 2022, anche alla mia il Covid ha strappato una persona cara. Portava il mio stesso nome, anzi io portavo il suo: era mio nonno, che per tutti aveva sempre un caloroso sorriso e qualche pronta battuta di spirito. L'abbiamo perso perché un virus gli ha aggredito i polmoni, o meglio, anche per questo: il tocco virale è stato solo l'intervento fatale, l'ultimo ad affastellarsi su un mucchio di altri.
Mio nonno non si è mai deciso a vaccinarsi: probabilmente (parola scelta con cura) se l'avesse fatto sarebbe ancora qui. Non negava la rilevanza dell'epidemia, né sottovalutava il pericolo dato dalla presenza del virus, ma ha comunque rinunciato a questo strumento preventivo: perché? Formulare questo genere di domande mi aiuta a dissipare la confusione, a distrarmi dal dolore, poi chissà, potrebbe anche essere d'aiuto. Innanzitutto, mio nonno non era affatto convinto che il vaccino fosse un veleno, né si dichiarava ostile all'assunzione da parte dei suoi cari: ha persino accompagnato sua moglie al centro vaccinale. Non era, quindi, ideologicamente contrario alla somministrazione del vaccino, ma serbava un irrazionale timore.
Le radici della sua paura sono senz'altro difficili da indagare, soprattutto adesso e per ragioni evidenti, ma io sono convinto che siano principalmente di due generi differenti: una delle cause è molto profonda, e la vedremo in un secondo momento, mentre l'altra scaturisce da una sorgente più vicina (spazialmente e cronologicamente) e mi è stata resa evidente dalla nube di parole che — tra una fitta di dolore e l'altra — si sono raddensate attorno al feretro nelle ore precedenti il funerale. Tra ipotesi di complotto maltusiane, sospetto per le potenze straniere, accuse alla classe medica (intervallate da incisi grati alle ovvie eccezioni), ma anche rispettosi contraddittori consci della delicatezza del momento e delle meccaniche della rabbia, il discorso si è fatto più volte modello miniaturizzato dell'infodemia che tanto alacremente abbiamo visto accompagnarsi in questi anni alla pandemia. Se pensate che la confusione su questioni, anche basilari, inerenti alla pratica clinica o alla ricerca scientifica si stiano lentamente risolvendo, vi sbagliate di grosso: al contrario, si sta stratificando e sedimenta nella psiche collettiva ponendo solide fondamenta per ulteriori morti e conflitti sociali. Le responsabilità sono innumerevoli, ma non è mio interesse rintracciarle in questa sede. Ciò che mi preme sottolineare è che mi pare naturale che si conservi un anomalo livello di incertezza, se l'unica atmosfera che si respira nel quotidiano è a tal punto avvelenata da informazioni scorrette, per non dire da vere e proprie stronzate senza capo né coda. In definitiva, se certe persone, tendenzialmente meno umili, rispondono all'incertezza radicalizzandosi, altre rimangono più semplicemente incapaci di risolversi a trovare una risposta personale ed evitano (infine) di porsi la domanda ancora e ancora, esponendo se stessi ed altri ad inutili rischi per un tempo indeterminato. Insomma, procrastinano. Perché questa condizione di evitamento abbia luogo, però, è necessario che sussistano delle precondizioni. («Per evitamento si intende in psicologia clinica una modalità di pensiero persistente e invalidante che non consente all'individuo di affrontare una situazione temuta.»)
E qui veniamo alla causa profonda che citavo in principio, una malattia essenzialmente moderna e borghese, che si esplica per mezzo del rifiuto della morte e della malattia quali argomenti di riflessione e conversazione. Si tratta di una negazione totale che non giunge priva di conseguenze: tenere a distanza simili questioni richiede uno sforzo perenne (più freudianamente, una "coazione a ripetere") che solamente nell'esercizio del lavoro e nella ricerca attiva di conflitti minori (anche apparentemente superflui) vede sfoghi per una via via crescente pulsione di morte. Dietro una maschera d'azione e priapistiche affermazioni pregne di vitalismo ("morirò quando sarà il momento", "non è Vita se la si trascorre preoccupandosi" e simili) si cela e prolifera un'abnorme ansia, la quale può arrivare a colonizzare qualunque discorso sul futuro, quindi essere somatizzata (es. in aritmie o gastriti) e da lì, in un circolo vizioso, condurre ad episodi di panico apparentemente inspiegabili (sospetto che episodi più o meno recenti fossero riconducibili proprio a queste dinamiche). Forse, ora ci si potrebbe aspettare che io voglia concludere con una soluzione al problema (una cura, da bravo studente di farmacologia), ma non ci sarebbe nulla di più distante dalle mie intenzioni: questo testo non mira a patologizzare l'atteggiamento di un singolo (mio nonno) o ad illustrare, per sequenza meccanicistica di cause ed effetti, una conclusione. Non è un cazzo di teorema, questo, e non ci sono soluzioni comode. Sarebbe bello. Queste meccaniche contribuiscono nel loro insieme ad un sistema culturale ed ideologico avente carattere prevalentemente sociale; sono idee che albergano solitamente nella psiche della popolazione maschile e borghese, per lo meno in questo piccolo paese di provincia, cioè nella componente più propensa ad abbandonare i riti ed i credo cattolici per secolarizzarli e rimestarli a piacere con una rinnovata e mortifera tensione libidica liberale. Se esiste un passo in avanti che sento di proporre, esso consiste nell'affrontare la pandemia per quello che effettivamente è, cioè uno straordinario momento di confronto collettivo con la morte, lasciando che questa catalizzi un tripudio di domande sulle fondamenta (fragilissime) d'una certa mascolinità ammuffita e, soprattutto, sulla maniera in cui affrontiamo il malessere fisico e psicologico. Mi limito quindi a trascrivere un'introduzione a queste domande e lascio che ognuno cerchi da sé le proprie risposte.
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