Smith e Winter ieri hanno vinto il Nobel per la chimica per questa tecnica, così come McCafferty. Il primo articolo pubblicato in merito risale al 1985; l'approccio mostrato è stato poi sviluppato ed adoperato tantissimo nella proteomica degli ultimi vent'anni. Perché? Come quasi sempre, perché c'era un problema da risolvere. In questo caso il problema aveva a che fare con la produzione di anticorpi: disponevamo della proteina espressa, ma all'interno di cellule murine (linfociti splenici di topo, precisamente) e in un miscelone con una miriade di altri tipi di anticorpi, quindi l'obiettivo era tanto semplice quanto ambizioso: individuare esclusivamente la proteina di interesse e correlarla al gene.

Piccola retrospettiva sugli anticorpi: in verità non si tratta di una sola proteina, ma di un complesso. Principalmente distinguiamo una catena leggera ed una pesante, per cui questo gioco va fatto due volte. Ma noi già negli Ottanta sapevamo fare una raccolta "differenziata" perché le banche dati ci avevano mostrato che vi erano delle sorte di etichette sempre uguali che aprivano e chiudevano gli RNA messaggeri che codificavano per la leggera ed altri differenti ma sempre uguali tra loro che aprivano e chiudevano gli mRNA per la pesante. Perché parlo di mRNA e non di DNA? Troppo lungo da affrontare qui il problema, ma in verità l'interesse è individuare l'RNA messaggero, così da fare poi un complementare in DNA da innestare nel virione e quindi nel batterio: questo tipo di DNA si chiama cDNA. Ma chiudiamo qui la parentesi, o non la finiamo più. Il concetto è che vogliamo individuare quell'acido nucleico utile per infettare delle cellule (eucariotiche) in modo da far loro sintetizzare il nostro anticorpo a livello industriale.

L'anticorpo può servire per tutta una serie di cose (ad esempio in analisi: avete presente i test di gravidanza? Ecco come fanno ad essere così sicuri), ma in questo caso l'obiettivo è prettamente farmaceutico: fare un anticorpo esclusivamente umanizzato, così da poterlo somministrare senza avere problemi di ipersensibilità (cioè senza risposte allergiche). Per scopi analitici sarebbe stato sufficiente sfruttare le murine e/o le chimeriche: in quel caso l'importante è che siano selettivi.

Torniamo al nostro approccio d'esposizione fagica: se l'obiettivo è quello di individuare proteine e geni, in verità quel che vogliamo fare è screenare banche molto vaste di cDNA. Poco fa abbiamo detto che lo scopo ultimo è quello di "innestare" il gene nel DNA di una cellula eucariotica, ma quello lo si fa alla fine, dato che gestire le eucariotiche è molto più complesso (e costoso). Volendo fare lo screening, si opera su batteri, tipicamente su E. coli, ma dipende dalle necessità. Ed ecco perché parliamo di cDNA e non di DNA. Ve lo immaginate che succederebbe a trasformare un batterio con del DNA eucariotico? Esatto: niente di niente, perché il batterio non dispone della macchina molecolare adatta a tradurlo. Quindi noi partiamo dal messaggero e facciamo un DNA complementare, lo chiudiamo come fosse un plasmide e lo somministriamo al batterio in una forma che può tradurre. Siccome abbiamo a che fare coi batteri, come #virus sfruttiamo dei fagi (leggi: batteriofagi), nostri fedeli compagni in molti approcci di biologia molecolare.

Esposizione fagica, Phage display

  1. Abbiamo costruito la libreria di cDNA ed i nostri fagi infettano i batteri; così facendo si moltiplicano. Il fago sfruttato non è un fago qualunque, ma è ingegnerizzato in modo tale da esprimere la proteina in superficie e conservare il gene che codifica per la proteina all'interno. Abbiamo così correlato genotipo e fenotipo.
  2. Fissazione: ricordiamo che noi vogliamo costruire un anticorpo per una proteina che ABBIAMO a disposizione sin dall'inizio, per esempio un epitopo di qualche patogeno. Sfruttiamo questa proteina per costruire una colonna attraverso cui far passare i nostri fagi. Solo quelli che hanno espresso la proteina si attaccheranno al target sulla colonna.
  3. Lavaggio: eliminiamo tutti i fagi che non si sono attaccati ai target.
  4. Eluizione: raccogliamo tutti i fagi che invece si erano attaccati.
  5. Amplificazione: infettiamo altri batteri con questi fagi e ripetiamo i punti precedenti 2 o 3 volte, così da ottenere solo quelli con la specificità maggiore per il target.

A dirla così sembra semplice, ma nella pratica in realtà si affrontano una miriade di problematiche di difficile risoluzione, per cui negli ultimi decenni si è cercato il più possibile di semplificare la tecnica anche dal punto di vista laboratoristico con vari escamotage, variando i target, variando i fagi ecc.


Fonti varie e spesso personali, ma ho trovato online le seguenti pagine che possono aiutare l'approfondimento: